Amazon restringe le ricerche di prodotti legati al mondo LGTBQ negli Emirati Arabi Uniti

Nel giugno 2022 il New York Times ha pubblicato una notizia secondo cui Amazon – società spesso considerata molto vicina alla comunità L.G.B.T.Q. – avrebbe posto restrizioni alla ricerca di prodotti L.G.B.T.Q. negli Emirati Arabi Uniti, per conformarsi alle legislazioni locali che vietano l’omosessualità.

 

Nel giugno 2022, il New York Times ha pubblicato una notizia secondo la quale Amazon avrebbe posto restrizioni alla distribuzione e alla ricerca di prodotti L.G.B.T.Q. negli Emirati Arabi Uniti, in cui la società è presente dal 2017. Ciò sarebbe avvenuto, secondo il giornale americano, a seguito di alcune pressioni esercitate dal Governo degli Emirati, dove l’omosessualità costituisce un reato punito con la reclusione o con sanzioni pecuniarie.

Amazon ha così rimosso i prodotti a tematica L.G.B.T.Q. (come, ad esempio, libri) nonché uno svariato gruppo di keywords (come lgbtq oppure pride o ancora closeted gay), con la conseguenza che negli Emirati non è più possibile ricercare siffatti prodotti.

Nicole Pampe, la portavoce di Amazon, ha dichiarato che Amazon avrebbe continuato ad impegnarsi a promuovere la diversità, l’uguaglianza e l’inclusione e a proteggere i diritti delle persone L.G.B.T.Q.: tuttavia, Amazon deve al contempo rispettare le leggi e le normative locali dei Paesi in cui opera. 

Si tratta peraltro di un atteggiamento già messo in atto da Amazon: lo stesso quotidiano ricorda come l’azienda abbia rimosso in Cina voti e commenti relativi a discorsi e scritti del Presidente Xi Jinping, così come ha chiuso il suo store Kindle nel Paese, sebbene abbia negato che ciò sia avvenuto per motivi legati alla censura.

Tale comportamento non è diverso da quello di altre big tech che hanno spesso accettato compromessi per poter operare in alcuni Paesi: il New York Times riporta il caso di Netflix che ha rimosso alcuni prodotti in Arabia Saudita e ha censurato delle scene in Vietnam, oppure quello di Google che, nonostante alcune preoccupazioni legate alla tutela della privacy, ha conservato i dati dei consumatori nei server cinesi, nonché di Apple che ha rimosso una app elettorale in Russia.

Innanzitutto, con riguardo alla decisione di Amazon, si può osservare come vi sia un contrasto tra le dichiarazioni della società e il suo agire concreto in questa occasione. Amazon, negli anni, ha spesso pubblicizzato la propria vicinanza alla comunità LGTBQ. Si pensi all’endorsement di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, nei confronti del matrimonio egualitario, oppure al fatto che la società abbia sempre ricevuto un ranking altissimo tra Best Places to Work for LGBTQ Equality.

Ad ogni modo, in questa occasione la società, nel bloccare la distribuzione di prodotti L.G.B.T.Q. negli Emirati Arabi Uniti, pur di continuare ad operare nel Paese, potrebbe aver contributo a porre in essere un comportamento discriminatorio sotto il profilo giuridico. Il comportamento della società è stato considerato contraddittorio anche in altri episodi. Come anche menzionato dal New York Times, Amazon avrebbe spesso finanziato in passato gruppi politici che si oppongono alla tutela dei diritti LGTBQ (tra questi vi erano gruppi che avevano licenziato dei propri collaboratori che avevano espresso supporto per i matrimoni tra persone dello stesso sesso). Questi episodi hanno spinto di recente gli organizzatori del Seattle Pride a rifiutare il supporto economico della società.

La vicenda ricostruita dal New York Times spinge ad alcune ulteriori riflessioni, soprattutto con riferimento al rischio che le big tech come Amazon, dotate di grandissimo potere economico, discriminino tra cittadini, nonché alla difficoltà di rinvenire un punto di equilibrio tra libertà di espressione e tutela dei diritti fondamentali (di quest’ultimo tema abbiamo parlato QUI).

Oggi come viene regolamentato tutto ciò? Nel contesto europeo, si può certamente menzionare il Digital Services Act – DSA (Regolamento UE “Legge sui servizi digitali”), approvato in via definitiva nel luglio 2022: si tratta di una proposta volta a contrastare possibili contenuti illegali e nocivi pubblicati sulle piattaforme: nel caso che qui interessa, si pensi alla pubblicazione di post offensivi nei confronti della comunità L.G.T.B.Q. (del Digital Services Act abbiamo parlato in questo Osservatorio QUI).

A tal proposito, nonostante i molti meriti, il Digital Services Act sembrerebbe però lasciare molta discrezionalità alle piattaforme nel valutare i contenuti da pubblicare o rimuovere (come testimoniato dalle norme in materia di rischi sistemici, che includono, ad esempio, la diffusione di contenuti illegali oppure la presenza di effetti negativi per la tutela dei diritti fondamentali, che sono valutati dalle stesse piattaforme, oppure le norme relative alle misure che le piattaforme devono adottare). Si tratta di una circostanza criticata anche dal Garante per la Protezione dei Dati Personali, poiché accrescerebbe enormemente il loro potere di influenzare la democrazia.

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