Guido Leto (1895-1956), alto funzionario della Polizia italiana, collaboratore del primo capo della Polizia fascista Arturo Bocchini, a capo della polizia politica dal 1938 al 1945, aderente alla Repubblica sociale, sfuggì all’epurazione e venne anzi reintegrato nel 1948 per occuparsi dei servizi segreti. La sua visione dei giorni concitati del trasferimento al Nord, sotto l’obbligo tassativo imposto agli impiegati dai nazifascisti, è una significativa testimonianza. Avrebbe scritto anche, poche pagine più in là, per giustificare il suo operato: «bisognava incorporarsi negli archivi diventandone custodi». Fu lui, in effetti, dopo la liberazione, l’incaricato dagli Alleati a ricomporre le carte trasferite al Nord: ciò che gli valse un merito all’atto del giudizio di epurazione.
Per il burocrate, partire per il «nord» equivaleva ad andare in guerra! Ecco la tragica antitesi dalla quale, scartata la soluzione bellicosa, bisognava uscire. E qui la fervida fantasia dell’impiegato cominciò a lavorare. Ebbe inizio la sfilata presso i capi servizio (che erano in condizioni d’animo non molto dissimili da quelle dei dipendenti) di facce che per l’occasione erano più smunte del consueto; le più impensate malattie, attribuite anche ai familiari, vennero fuori con grande naturalezza, per dimostrare la fisica impossibilità di muoversi da Roma. Numerosi furono i casi (specialmente quando, dopo lo sbarco di Anzio, sbagliando i calcoli, si pensava all’arrivo a Roma – imminente – degli anglo-americani) di persone che si sottoposero ad operazioni chirurgiche: ernie ed appendiciti erano all’ordine del giorno. Fu coniata una nuova malattia, la Kesselrite, dal nome del maresciallo tedesco Kesselring, che abbracciava tutto il campo della patologia.
Gente attaccatissima all’ufficio che tranquillamente veniva a chiedere di essere collocata a riposo, simulando un esaurimento generale che l’impiego di Stato non ha mai causato nei secoli a nessuno, o affermando la necessità familiare di dedicarsi finalmente alla cura dei propri interessi trascurati fino allora dai doveri d’ufficio – risum teneatis! – quando d’interessi nella lora vita non avevano avuto altro che quello di «tirar la paga» e cercavano di convincere l’interlocutore delle profonde verità che andavano enunciando (…). Non che entrasse in questo stato d’animo il concetto della «non collaborazione» e della «resistenza» come si volle poi affermare in modo apodittico (…), ma solo un fondamentale, ed aggiungo giustificabilissimo, senso di quietismo, di pigrizia, di paura del nuovo ed anche di attaccamento abitudinario e, direi, quasi fisico all’ufficio che fa parte dell’essenza dell’impiegato dello Stato.
Guido Leto, Zibaldone di polizia, Roma, Edizioni Mediterranee, 1974, p. 246-247.