Quanto fu fascista l’amministrazione del periodo fascista? Rispondere a questa domanda non è semplice, sia perché il fascismo attraversò, nei suoi rapporti con lo Stato, varie fasi (una cosa furono gli anni immediatamente successivi alla marcia su Roma, altra gli anni Trenta, altra ancora quelli della guerra), sia perché ogni ministero ebbe, si può dire, la sua storia: molto diversa quella dell’Interno, regno dei vecchi prefetti di formazione giolittiana, da quella dei ministeri «fascisti» degli anni trenta, come ad esempio il Minculpop, Ministero della cultura e della propaganda, un ministero «in camicia nera».
In questo brano delle sue memorie pubblicate nel 1963, il ministro delle Finanze di Mussolini del 1922-25, Alberto De’ Stefani, sostiene la tesi – plausibile per quegli anni e quel contesto – che in quel dicastero chiave non si ebbe alcun tipo di spoils system politico.
Devo smentire l’opinione corrente, fabbricata in questo dopoguerra, che si dovessero lamentare ingerenze politiche nell’allontanamento o nella assunzione di qualche dirigente. Io non ne ho avuto esperienza alcuna. Nel mio sparuto e parsimonioso Gabinetto avevo trovato un solo fascista. Lo ho saputo per caso: ottima persona, scrupolosa nell’adempimento dei propri doveri, di media capacità ma rispettato da tutti. Il mio capo di Gabinetto, Conte Francesco Quarta, era un vero signore ed aveva quanti altri mai il senso dello Stato, per l’alta tradizione familiare e per la dignità propria. Il mio segretario particolare era un giolittiano confesso; tra me e lui non c’era alcuna barriera, ma una comunicazione affettiva e di reciproca stima che è durata sempre. Nei miei rapporti con loro il partito mi sembrava una costrizione; i nostri punti di vista amministrativi, le nostre decisioni coincidevano. Ci muovevamo su un piano diverso da quello dei partiti.
Fra i direttori generali primeggiavano uomini di grande valore per attaccamento al servizio, per inflessibilità verso loro stessi prima che verso i loro dipendenti e per intelligenza. Tra essi emergevano, accanto al Ragioniere Generale De Bellis, Antonio D’Aroma, abruzzese, Direttore generale alle imposte dirette, cui devesi la formulazione dell’imposta complementare progressiva; Valerio Marangoni, da Bassano, di alta competenza giuridica, cui devesi la trasformazione delle moltissime imposte sugli scambi, ereditate dal disordine tributario bellico e post-bellico, in un’unica imposta generale, che precorse l’imposta sull’entrata, ispirata a criteri di mitezza e dalla quale erano esonerati i commestibili e i combustibili.
Alberto De’ Stefani, Una riforma al rogo, Roma, Volpe, 1963, pp. 80-81.