Gli editori sono penalmente responsabili dei commenti diffamatori degli utenti pubblicati sui social networks sotto ai loro post. È questo il contenuto innovativo della sentenza della Corte Suprema australiana, che apre la strada a nuove regole per le pubblicazioni in rete, ma anche a probabili limitazioni della libertà di espressione.
La Corte Suprema australiana attraverso una recente sentenza ha sancito la responsabilità degli editori rispetto ai commenti pubblicati dai lettori sotto ai post presenti nelle pagine dei giornali, o notiziari televisivi, sui social media. Tali commenti sono considerati alla stregua di contenuti editoriali, pertanto, se ritenuti diffamatori, gli stessi giornali ne sono considerati penalmente responsabili.
La decisione prende le mosse dal ricorso in appello al tribunale del Nuovo Galles del Sud da parte di alcuni editori, in una causa che vede come protagonista un minore, destinatario, nel 2017, di maltrattamenti in carcere. La foto che lo ritraeva legato ad una sedia e incappucciato è stata diffusa sulle pagine Facebook di alcuni editori australiani e sotto ai relativi post sono stati pubblicati diversi commenti dal contenuto diffamatorio, accusandolo di aver commesso alcuni crimini.
Il minore, dopo essere stato scarcerato, ha intentato una causa per diffamazione contro gli editori, sostenendo che questi ultimi traevano vantaggio in termini di maggiore visibilità e pubblicità dal proliferare di commenti ai loro post, a cui non veniva posto alcun argine. Gli editori sostenevano invece di non poter essere ritenuti responsabili di quanto scritto dagli utenti, poiché inconsapevoli delle innumerevoli funzionalità di Facebook.
La Corte Suprema australiana si è espressa sul punto ritenendo che le testate giornalistiche hanno partecipato alla pubblicazione dei commenti, incentivando la diffusione del post proprio tramite la condivisione, e che vanno, dunque, considerate come responsabili penali.
Se da un lato Facebook e gli altri social networks si sono posti in forte disaccordo con la decisione, incitando l’Australia a adottare una disciplina legislativa più puntuale in materia, come già avvenuto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna; dall’altro giornali ed emittenti televisivi si sono rivolti proprio a Facebook. La richiesta emessa nei confronti di quest’ultimo è relativa alla possibilità di disabilitare la funzionalità di lasciare i commenti ai post pubblicati sulle loro pagine. Il social non si è tuttavia mostrato molto favorevole ad accogliere simili proposte, come avvenuto nei confronti della CNN, che ha risposto al diniego con la chiusura dell’accesso della propria pagina su Facebook in Australia.
La posizione assunta dalla Corte non ha fatto altro che accelerare la necessaria determinazione dei rapporti tra gli editori e i social networks. Già dallo scorso 2020, una legge australiana ha imposto a Facebook e Google di versare agli editori un corrispettivo per quanto da loro pubblicato ed è stato introdotto un codice di condotta obbligatorio, che regolasse la condivisione di dati, articoli e guadagni relativi alle notizie diffuse.
Ciò che da tali misure risulta essere fortemente compressa è la libertà di espressione e di stampa, che deve essere però bilanciata con la necessità di individuare dei responsabili per le azioni diffamatorie, piuttosto frequenti sulle piattaforme digitali (ne abbiamo già parlato qui, qui e qui).
Anche la giurisprudenza italiana sostiene la responsabilità penale degli editori per commenti diffamatori degli utenti, purché abbiano avuto conoscenza di ciò e non abbiano provveduto alla loro eliminazione. In Italia non sussiste responsabilità per diffamazione se l’amministratore della pagina editoriale presente sul social network provvede alla cancellazione dei commenti incriminati.
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