Don José, unico personaggio di quello straordinario romanzo del grande scrittore portoghese Saramago che è Tutti i nomi, abita da sempre, quasi murato vivo, dentro il grande archivio della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, a contatto quotidiano (essendone il custode, dorme in un piccolo alloggio comunicante) con gli immensi scaffali degli schedari dei morti e dei vivi.
Pochi, solerti impiegati hanno di giorno il compito di gestire il giacimento sterminato delle carte, spostando, via via che la natura fa il suo corso, le schede dei vivi nella zona remota riservata ai morti. Immense montagne di carta sovrastano José. Deve solo custodirle, giammai leggerle. Ma a un tratto, contravvenendo alla tassativa consegna, viene colto da un interesse acuto per quei nomi. Si fa allora esploratore notturno, al lume flebile di una piccola lampadina, dell’universo inerte che lo sovrasta.
Non sveleremo qui la storia della quale don José è protagonista e vittima. In questa pagina, una delle iniziali, ci interessa piuttosto la rappresentazione suggestivamente cupa e misteriosa dell’archivio, che alla fine rimanda al tema eterno del rapporto con il passato e con la memoria, e ci trasporta nei luoghi (gli archivi) che di quel passato conservano in eterno le chiavi.
Per non perdere il bandolo della matassa in un argomento così trascendentale, conviene sapere prima di tuttio dove sono ubicati e come funzionano gli archivi e gli schedari. Sono divisi, strutturalmente e fondamentalmente, o, se vogliamo usare parole semplici, in obbedienza alle leggi di natura, in due grandi aree, quella con gli archivi e schedari dei morti e quella con gli schedari e gli archivi dei vivi.
Gli incartamenti di coloro che non sono più in vita sono sistemati alla bell’e meglio nella parte posteriore dell’edificio, la cui parete di fondo, a seguito dell’aumento impari del numero dei defunti, dev’essere sistematicamente abbattuta e rialzata di nuovo alcuni metri più avanti. Come sarà facile concludere, le difficoltà di inserimento dei vivi, ancorché preoccupanti, tenendo conto che la gente continua a nascere, sono molto meno pressanti e sono state risolte fino a ora, in modo ragionevolmente soddisfacente, vuoi facendo ricorso alla compressione meccanica orizzontale delle singole pratiche collocate negli scaffali, come nel caso degli archivi, vuoi impiegando schedine sottili e ultrasottili, nel caso degli schedari.
Malgrado il fastidioso problema della parete di fondo di cui si è già riferito, è altamente lodevole lo spirito di previsione degli architetti storici che progettarono la Conservatoria Generale dell’Anagrafe, proponendosi e difendendo, contro le opinioni conservatrici di certi spiriti taccagni rivolti al passato, l’installazione di cinque gigantesche strutture di scaffali che si ergono fino al soffitto alle spalle degli impiegati, più arretrata la sommità della scaffalatura di centro, che sfiora quasi la grande sedia del conservatore, più prossime al bancone quelle delle scaffalature laterali estreme, mentre le altre due restano, per così dire, a metà strada.
Considerate ciclopiche e sovrumane da tutti gli osservatori, queste costruzioni si estendono all’interno dell’edificio più di quanto la vista riesca a cogliere, anche perché da un certo punto in poi comincia a regnare l’oscurità e le lampade si accendono solo quando è necessario consultare qualche pratica. Queste strutture di scaffali sono quelle che sopportano il peso dei vivi.
I morti, o meglio i loro incartamenti, sono tutti verso l’interno, meno ben confezionati di quanto dovrebbe consentire i rispetto, ragion per cui è proprio un bel da fare ritrovarli quando un patente, un notaio, o un ufficiale giudiziario viene in Conservatoria a richiedere certificati o copie di documenti di altre epoche.
José Saramago, Tutti i nomi, Torino, Einaudi, 1998, pp. 5-6.