L’esercizio dei golden powers in materia di reti 5G si mostra crescente, soprattutto nei confronti di società cinesi come Huawei e Zte. L’oscurità sottesa all’esercizio di questi poteri, tuttavia, rende difficile comprendere le reali ragioni che fondano l’adozione di decisioni volte a vietare o limitare i rapporti con le aziende orientali. Questa breve analisi della normativa e della casistica suscita alcuni dubbi. Tali perplessità, peraltro, sono accresciute dall’inerzia del Governo nei confronti della diffusione di tecnologie cinesi nel settore gemello della fibra ottica.
La crescente ostilità verso le società cinesi nel campo della costruzione di reti 5G, già descritta in questo Osservatorio, sembra orientare anche le scelte più recenti del Governo italiano. Il 22 ottobre 2020, con un d.P.C.M., il Governo ha esercitato i poteri speciali di cui all’art. 1-bis del d.l. n. 21/2012, ossia i c.d. golden powers, al fine limitare fortemente gli effetti di un accordo tra Fastweb e la cinese Huawei relativo a una fornitura per le reti 5G core, imponendo di fatto all’operatore italiano (di proprietà del Gruppo Swisscom, a sua volta controllato dalla Confederazione svizzera) di diversificare i suoi fornitori per la rete mobile. La decisione si sarebbe resa necessaria, infatti, perché Fastweb avrebbe scelto Huawei come fornitore unico della sua rete 5G. Si rammenti, peraltro, che l’art. 1-bis del decreto legge in materia di poteri speciali è stato inserito dal recente d.l. n. 22/2019 proprio allo scopo di estendere i poteri di veto e di imposizione di condizioni anche a contratti, eventualmente già stipulati, in materia di reti di quinta generazione.
La decisione del Governo sembra confermare che la tecnologia 5G, più che improbabili rischi per la salute (su cui si rinvia a quanto già osservato dal giudice amministrativo e descritto in questo Osservatorio), pone particolari problemi di stampo geopolitico ed economico. La notevole diffusione della tecnologia della società cinese Huawei nel campo del 5G, infatti, si spiega anche per via della convenienza economica che questa sottende. La sostanziale mancanza di alternative occidentali valide e competitive alle tecnologie cinesi in questo settore si mostra evidente laddove si nota che quasi tutti gli operatori delle telecomunicazioni hanno provato, nel tempo, a stipulare accordi con le cinesi Zte e Huawei per costruire la loro rete di quinta generazione. L’attività degli esecutivi occidentali volta a limitare queste operazioni economiche, formalmente, si basa quasi sempre su ragioni legate all’interesse alla tutela della sicurezza nazionale. Tuttavia, in assenza di definizioni più precise del concetto di sicurezza nazionale, sorge il timore che l’interesse sotteso non sia solamente quello alla tutela della sicurezza intesa come difesa militare, bensì ad una concezione più ampia della stessa. La protezione di questo genere di sicurezza, dai risvolti economici e politici, non potrebbe che avvicinare le varie misure di veto o limitazione ad una forma surrettizia di protezionismo (si v. quanto osservato in materia di normativa sulla sicurezza cibernetica e sulla sua attuazione).
Il caso del golden power si mostra emblematico in questo senso. Il recente caso di Fastweb, infatti, non rappresenta il primo esempio di esercizio dei poteri speciali nei confronti di una società cinese che opera nella materia del 5G. Una sorte simile è stata imposta, ad esempio, con due d.P.C.M. del 5 settembre e del 10 ottobre 2019, ad accordi dello stesso tipo stipulati da WindTre, rispettivamente, con Huawei e Zte. Anche ad accordi della stessa Zte con altri operatori minori interessati alle tecnologie 5G sono state imposte prescrizioni e condizioni di vario genere. Più in generale, però, la natura del golden power rende difficile conoscere sia il contenuto delle prescrizioni, sia le motivazioni sottese all’emanazione dei provvedimenti. Pertanto, può risultare ostico comprendere se sussista un reale interesse alla tutela della sicurezza nazionale in senso stretto.
L’obbligo di motivare l’esercizio dei poteri speciali, in questo senso, rappresenta un elemento fondamentale per un rapporto equilibrato fra i soggetti interessati all’investimento e il Governo. La motivazione del provvedimento, infatti, indicando le ragioni giuridiche ed i presupposti di fatto su cui si fonda la decisione amministrativa, garantisce al privato uno strumento essenziale per poter conoscere gli eventuali vizi dell’atto. Nel campo degli investimenti che provengono dall’estero, quindi, una adeguata motivazione del provvedimento garantirebbe vari vantaggi. La maggiore accountability delle autorità pubbliche e il maggiore grado di certezza e trasparenza delle decisioni adottate comporterebbero un esercizio della discrezionalità più rispettoso dei principi del diritto amministrativo, in primis di quello di proporzionalità. D’altro canto, questi obiettivi possono divenire di fatto impossibili da raggiungere. A livello generale, la scienza giuridica da tempo riconosce il fenomeno della «crisi della motivazione», dovuta a problemi come la dequotazione e il depotenziamento di questo strumento. Il rispetto dell’obbligo sembra avere, in tutte le decisioni amministrative, un valore sempre più formale e sempre meno concreto, risultando nei fatti svuotato di contenuto. Il depotenziamento di questo obbligo si fonderebbe sull’eccessivo costo (inteso in senso non strettamente economico) a cui l’amministrazione andrebbe incontro nel cercare di dare adeguata motivazione alle decisioni adottate. Il fenomeno descritto da questa interpretazione avrebbe varie manifestazioni concrete, tra cui i casi di motivazione implicita, motivazione sintetica, motivazione successiva, motivazione assente. Il controllo dei foreign direct investments – FDI, fra cui quelli in materia di 5G, non sembra esente da nessuna di queste problematiche.
L’art. 3-bis del d.l. n. 21/2012 contiene importanti previsioni in termini di rispetto dell’obbligo di motivazione e del principio di trasparenza dell’attività amministrativa. Questo, infatti, dispone che il Presidente del Consiglio dei Ministri trasmette alle Camere, entro il 30 giugno di ogni anno, una relazione sull’attività relativa all’esercizio dei poteri speciali, con particolare riferimento ai casi specifici e agli interessi pubblici che hanno determinato l’esercizio di tali poteri. Nonostante per il pubblico sia difficile conoscere il contenuto della motivazione dei singoli provvedimenti (obbligatoria, in base all’art. 3 della l. n. 241/1990), dunque, il fondamento logico-giuridico del bilanciamento degli interessi sotteso ai vari provvedimenti di screening dovrebbe essere conoscibile tramite la relazione annuale. Tuttavia, occorre notare che questo strumento da un lato mostra la ridotta efficacia dell’obbligo di motivazione in questo campo, dall’altro non garantisce un pieno rispetto del principio di trasparenza.
In merito al secondo problema, anzitutto, pare agevole osservare che la relazione non è stata presentata nei primi anni di esistenza del golden power e non è stata presentata annualmente, come richiesto, invece, dal decreto legge. Dal 2012 ne sono state predisposte tre, una prima relativa al periodo 3 ottobre 2014 – 30 giugno 2016, una seconda relativa al periodo 1 luglio 2016 – 31 dicembre 2018 ed una terza per il periodo 1 gennaio 2019 – 31 dicembre 2019. Tali relazioni mostrano, peraltro, un interessante riassunto dell’azione del Governo nel campo e dello stato dell’arte della normativa sul golden power, per poi riepilogare l’insieme delle operazioni poste in essere negli anni considerati. Lo studio aggregato dei casi che viene compiuto dalle relazioni può essere certamente utile per comprendere l’andamento sistemico dell’uso del golden power. Ad esempio, dall’analisi delle stesse si rinviene che, relativamente alla tecnologia 5G, i procedimenti di controllo avviati sono stati 14 nel 2019 e ben 11 di questi si sono conclusi con l’imposizione di prescrizioni volte a condizionare e modificare i contratti stipulati e la loro esecuzione.
In merito al primo punto, ossia al rispetto dell’onere motivazionale, tuttavia, la relazione sottolinea una sorta di oscurità di fondo dei poteri speciali. Nella sezione «Trattazione e modalità di definizione degli interventi», che dovrebbe essere dedicata a riepilogare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche su cui si basano le decisioni adottate, sebbene sia possibile evincere il dispositivo dei provvedimenti, non è possibile comprendere con precisione se sia stato rispettato l’onere motivazionale. Viene operato, infatti, un mero rinvio agli interessi tutelati, come la sicurezza nazionale, senza però descrivere i concreti pericoli per gli stessi che avrebbero ingenerato l’azione amministrativa. D’altro canto, il pieno rispetto dell’onere motivazionale dovrebbe essere garantito in sede di emanazione del provvedimento, non nel report annuale. I pochi provvedimenti di golden power disponibili al pubblico, però, mostrano anch’essi un rispetto dell’onere unicamente formale. La parte dispositiva, infatti, prevale nettamente sull’esposizione dell’istruttoria e del bilanciamento degli interessi ad essa conseguito, identificati meramente con il richiamo agli interessi tutelati dal d.l. n. 21/2012.
Ad inficiare in modo determinante il rispetto in concreto dell’onere motivazionale, peraltro, contribuisce la normativa secondaria, escludendo il diritto di accesso e richiamando espressamente la secretazione degli atti. L’art. 9 del d.P.R. n. 35/2014 e l’art. 9 del d.P.R. n. 86/2014, infatti, escludono espressamente l’accesso agli atti amministrativi ex art. 22 della l. 241/90, tramite l’espresso richiamo all’art. 24, co. 2 della stessa legge. Inoltre, gli stessi articoli sottolineano l’applicabilità dell’art. 42 della legge 3 agosto 2007, n. 124, che disciplina l’apposizione della classifica di segretezza. L’unica eccezione prevista dai regolamenti è quella relativa alla possibilità di accesso ex art. 24, co.7 della l. 241/90, secondo cui «deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici». Per quanto riguarda le altre forme di accesso agli atti amministrativi, anch’esse saranno escluse dall’apposizione della classifica di segretezza. Pertanto, pare possibile affermare che, nell’impossibilità di garantire il rispetto del principio di trasparenza amministrativa, vista la prevalenza di altri interessi, sarà altrettanto complesso valutare l’effettivo rispetto dell’onere motivazionale nella maggior parte dei casi.
Quanto esposto comporta che le crescenti pulsioni protezionistiche in materia di 5G potrebbero trovare sfogo tramite l’esercizio dei poteri speciali, esercitati allo scopo di favorire la crescita dei produttori occidentali in questo settore, come Nokia ed Ericsson. L’indicazione generica di ragioni di sicurezza nazionale, infatti, non consente di valutare con precisione gli effettivi rischi per la stessa che verrebbero posti dall’uso di tecnologie cinesi che, allo stato attuale, si mostrano più efficienti ed economiche. Tali rischi possono essere individuati solo facendo riferimento ad altri documenti, come il rapporto del Copasir del 2019 già citato in questo Osservatorio. L’emanazione di provvedimenti di golden power, però, comporta distorsioni della concorrenza di un certo rilievo che, soprattutto nella materia del 5G, potrebbero riflettersi in costi sempre maggiori per gli utenti finali. Pertanto, il rispetto meramente formale del principio di trasparenza e dell’obbligo di motivazione in sede di esercizio dei poteri speciali potrebbe comportare spiacevoli effetti avversi nel lungo periodo. Si consideri, peraltro, che ciò incide profondamente sulle tutele che un investitore può concretamente ottenere. Nonostante la possibilità di impugnare di fronte al T.A.R. (munito di giurisdizione esclusiva) i provvedimenti di golden power, infatti, accade molto raramente che ciò avvenga, spesso sulla base di mere ragioni formali.
Infine, occorre segnalare una piccola curiosità. Le ragioni di sicurezza nazionale che hanno fondato l’esercizio dei golden powers e di altri poteri per frenare potenziali ingerenze cinesi nel campo del 5G non sono state rinvenute con la stessa attenzione, finora, nel settore gemello della fibra ottica. Si consideri, ad esempio, che quasi tutti gli internet service providers che forniscono connessioni fiber-to-the-home (ftth) utilizzano diffusamente apparecchi cinesi (ONT prodotti da Huawei o Zte) per convertire il segnale ottico che proviene dall’esterno nel segnale elettromagnetico dei router casalinghi. Ciò comporta che moltissime connessioni domestiche poggiano su tecnologie cinesi, tanto quanto farebbero gli impianti 5G. Il sostanziale disinteresse dei pubblici poteri per questo fenomeno può essere spiegato sia sulla base di un minore rischio per la sicurezza nazionale sia, più probabilmente, a causa del minore peso economico della concorrenza cinese in questo particolare ambito, visto il prezzo piuttosto ridotto di questi apparecchi. Peraltro, la carenza di sapere tecnico, un problema annoso per le pubbliche amministrazioni, potrebbe giocare un ruolo anche in questa materia, riducendo la capacità delle stesse di valutare adeguatamente la suddetta questione.
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