Nel 1947 il Partito comunista italiano aveva oltre due milioni di tesserati. La Democrazia Cristiana nei primi anni ’70 contava su un milione e ottocentomila tesserati. Il Movimento Sociale Italiano ne raggiungeva 200 mila, mentre il Partito Repubblicano si attestava sui centomila. Nel 2019 il Partito Democratico è sceso sotto la soglia psicologica dei centomila iscritti votanti al congresso (20% in meno di coloro che votarono al primo congresso del partito, nel 2009). Forza Italia invece passò dai 300 mila militanti del 2000 agli appena quarantamila del 2014. La crisi irreversibile del partito politico tradizionale (in Italia, ma non solo) ha generato vuoti di rappresentanza nel sistema democratico. In pochi – tra questi, il Movimento 5 stelle – hanno provato a riempire gli spazi non presidiati di partecipazione con formule nuove, in rottura col passato. Le tecnologie digitali giocano un ruolo cruciale al riguardo. La digitalizzazione della rappresentanza politica apre a prospettive inedite, potenzialmente dirompenti, ma genera anche problemi nuovi per le democrazie occidentali. È necessario dare risposta a due domande. La prima: open-source è sinonimo di migliore democrazia? La seconda: servono regole nuove per le interazioni digitali tra cittadini, forze politiche e procedimenti democratici?
Il 17 Ottobre 2020 il MoVimento 5 Stelle (M5S) ha annunciato un’importante novità: Rousseau X. Si tratta di un’applicazione mobile, in formato open source, che consente agli iscritti la possibilità di prendere parte alle attività del Movimento: dalla raccolta di informazioni sugli eventi in programma, passando per l’esercizio del diritto di voto, fino alla presentazione della propria candidatura nelle tornate elettorali locali, nazionali ed europee. Unica forza politica capace di resistere alla crisi irreversibile del partito politico tradizionale, al punto da rappresentare un unicum nel panorama politico nazionale, il M5S da sempre considera la partecipazione diretta dei cittadini elemento fondante del proprio programma e della propria azione politica. La tecnologia digitale gioca quindi un ruolo cruciale: nella logica di disintermediazione promossa dal M5S, è lo strumento per il cui tramite colmare il vuoto di rappresentanza politica, offrendo idealmente a chiunque la possibilità di contribuire alla formazione delle decisioni.
Quali risultati abbia ottenuto questa ideologia, e a quale costo per la democrazia rappresentativa tradizionale, sono questioni interessanti, di cui molti hanno già scritto (Paolo Gerbaudo e Marco Deseriis, ad esempio) e di cui non mi occuperò in questa sede. Non mi soffermerò nemmeno sulle questioni legate all’opportunità politica dell’iniziativa, o tantomeno su quelle relative ai contenuti ospitati dalla piattaforma Rousseau. Guarderò, invece, al tema più ampio (e interessante, almeno per quanto riguarda questo Osservatorio) della digitalizzazione della rappresentanza democratica. L’idea secondo cui si possa ravvivare la partecipazione diffusa per il tramite di strumenti digitali crea prospettive inedite e genera nuovi problemi per le democrazie occidentali. È giusto che la politica si interroghi su come trarre profitto dalle prime e trovare soluzioni ai secondi. Ciò tuttavia non esclude che altri – e tra costoro i giuristi – indaghino sugli aspetti legati alla gestione delle piattaforme digitali per la partecipazione, provando a prospettare (da una posizione neutrale) soluzioni originali o trasformative del quadro giuridico esistente.
Due aspetti sono particolarmente importanti. Il primo: open source è sinonimo di migliore democrazia? C’è ampia letteratura sui benefici generati dai software non protetti da copyright (e pertanto liberamente modificabili dagli utenti). L’esempio più noto è offerto Linux – il sistema operativo ‘aperto’ per definizione. Negli anni Linux ha beneficiato enormemente del contributo degli utenti, sia attraverso la correzione di errori che nell’introduzione di miglioramenti. Di qui il passaggio successivo: applicare la filosofia del software aperto ai sistemi democratici. La retorica del governo aperto (open government) nasce nel 2011 sulla base di un presupposto semplice: se riusciamo ad alimentare connessioni ‘sane’ tra cittadini, e veicoliamo, ordinandole all’interno di piattaforme digitali, le idee che scaturiscono da queste connessioni, otterremo due benefici. Anzitutto, una migliore qualità dei sistemi decisionali e, in seconda battuta, un più saldo legame fiduciario tra governi e comunità. Non a caso, la piattaforma Rousseau X è in formato aperto.
A distanza di dieci anni possiamo chiederci: ha funzionato? L’open source applicato al governo genera realmente politiche migliori e più partecipate? Certamente non mancano né casi di successo né sperimentazioni dai risultati convincenti (ne ho scritto QUI e QUI). Quello che finora mancava era un’analisi organica delle centinaia di iniziative di questo genere nel mondo. Ci prova una ricerca curata da Luciana Cingolani della Hertie School of Governance. L’autrice ha analizzato 465 piattaforme di open government operative in 87 Paesi. Il quadro che emerge è molto interessante. Per cominciare, le piattaforme aperte hanno migliori possibilità di sopravvivenza se nascono su iniziativa delle compagini di governo, rispetto all’ipotesi in cui vengano generate dai portatori di interessi. Inoltre, la maggiore o minore diversificazione dei temi su cui ciascuna piattaforma consente ai cittadini di intervenire non è determinante ai fini del successo della stessa. Così anche, infine, per il supporto logistico offerto da iniziative come la Open Government Partnership: può essere utile nella fase di nascita di una piattaforma, non ai fini della sua sopravvivenza. Attenzione quindi alla vulgata secondo cui open source equivale a migliore. Benché potenzialmente efficaci, anche il codice aperto e modificabile nasconde numerose insidie.
Secondo punto: a chi spetta definire le regole che riguardano l’ideazione e l’attuazione di iniziative come Rousseau X? Ai promotori di queste iniziative, certamente. Ma soltanto a loro? Oppure è auspicabile esista un perimetro di regole che guidi, da una posizione neutrale, lo sviluppo di queste iniziative? Per essere ancora più chiari: non parliamo di opportunità (quella ad esempio che una forza politica si esprima sulla base delle intenzioni di un numero più o meno ampio di sostenitori) ma di funzionalità. Cerchiamo cioè di comprendere i limiti entro cui una piattaforma digitale (o un altro strumento tecnologico) possa contribuire al buon funzionamento di una democrazia partecipativa.
Il tema è oggetto di un dibattito vivace. Lo semplificherò così: in linea di principio, si sostiene, una democrazia non può rinunciare a stabilire le ‘regole di ingaggio’ del contributo che i portatori di interesse vogliono portare ai processi decisionali (ne ho scritto QUI e QUI). Tradotto in pratica, significa che le piattaforme digitali per la partecipazione, al di la dell’affiliazione ideologica e politica, dovrebbero adeguarsi alle regole poste dal legislatore. Ad esempio quelle relative all’utilizzo dei dati degli utenti, oppure ai principi di base del service-design, o ancora a quelli sull’inclusione, per citare i più importanti.
Di qui una seconda riflessione, più ampia, sul ruolo che riteniamo si debba attribuire a queste piattaforme (o più in generale alle iniziative di democrazia digitale). Se vogliamo considerarle parte integrante delle procedure decisionali, allora torna la questione delle regole di fondo cui queste iniziative devono uniformarsi. Attenzione: è possibile un’alternativa. Possiamo cioè considerare queste iniziative come funzionali al dibattito pubblico. Strumenti utili a mantenere in vita una democrazia, alimentando la discussione tra il maggior numero di interessati. L’attuale interpretazione dell’Iniziativa Europea dei Cittadini, venduta per anni al pubblico come strumento di democrazia diretta sopranazionale, sembrerebbe oggi orientarsi in questa direzione. Lanciare una nuova iniziativa europea non ha la finalità di imporre al legislatore europeo l’adozione di nuove norme, o la modifica di quelle esistenti. Serve semmai a movimentare l’opinione degli interessati, offrendo spunti al legislatore. Va peraltro in questa direzione anche l’interpretazione sul ruolo della Conferenza sul Futuro dell’Europa (ne ho scritto QUI).
Sarà interessante vedere quale interpretazione prevarrà nel dibattito nazionale. Di certo il buon esito delle prove generali di democrazia digitale dovrà superare il confronto con questi problemi.
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