Gli orari del Ministero: la “resistenza passiva” alla puntualità

Chi scrive è un ex impiegato entrato per concorso alle Ferrovie nel periodo fascista e rimasto, ancora dopo la guerra, dipendente dello Stato negli anni della Repubblica. Memorie «sorridenti», sì, ma anche preziose fonti documentarie, per essere una specie di veduta realistica della vita impiegatizia e delle prassi vigenti nei corridoi ministeriali romani allo scopo di resistere passivamente all’obbligo di lavorare.

 

Cinque o sei ordini di servizio regolavano l’entrata negli uffici; altrettanti e forse più l’uscita. Chi ritardava qualche minuto o era sorpreso nel tentativo di squagliarsela prima del termine dell’orario si vedeva recapitare subito una reprimenda entro buste gialle che per il loro numero erano diventate vessatorie e qualche povero diavolo più bersagliato si consolava dicendo che occupandosi tanto di lui in alto cominciava a pensare di essere diventato qualcuno e non il misero applicato con doppia cessione del quinto e ritenute varie, aggiungendo poi malignamente che a lui mandavano le buste mentre gli altri ricevevano le «bustarelle».

La resistenza passiva e la forza burocratica «intender non la può chi non l’ha sperimentata». Non v’era disposizione che dopo un poco non fosse attenuata o posta con mille espedienti nell’impossibilità di operare: era una lotta sorda fra la centrale del gabinetto e gli altri uffici, naturalmente entro certi limiti e salvando sempre le formalità.

All’uscita, ad esempio, avevano messo, per coadiuvare i portieri nel rispetto dell’orario, un simpatico sottufficiale che mentre i primi giorni era l’incubo dei ritardatari per la tema di essere annotati sopra un suo taccuino che veniva chiamato il libro nero, a poco a poco si rivelò, invece, un pacioccone il quale proprio quando non ne poteva fare a meno segnalava il nome dei più incalliti e refrattari all’osservanza di qualunque orario anche se l’ora di entrata fosse quella di mezzogiorno. Erano, si può dire, gli abbonati al comodo proprio e per loro l’ufficio rappresentava un luogo dove non era mai tardi per arrivarvi.

Fernando Marino, Il burocrate sorridente, Milano, Gastaldi editore, 1956, pp. 241-242.