Una pagina graffiante e insieme amara, di uno scrittore (Carlo Levi, Torino, 1902 – Roma, 1975) che ha combattuto il fascismo sino a subirne il confino di polizia e che in questo libro racconta quasi in presa diretta la sua stralunata esperienza di uomo della Resistenza nella Roma del 1945, quando un Ferruccio Parri simbolo della lotta al regime governa un Paese già sulla via di dimenticare. I ministeri romani e l’odiata burocrazia sono i simboli della restaurazione, i capisaldi inespugnabili della eterna continuità del potere.
Si è sparato sul marciapiede di faccia, ancora oggi ci passano gli operai, le donne in cerca di lavoro, i soldati americani; ma dentro il palazzo del Ministero, a pochi metri di là, è come se niente fosse mai avvenuto. Quei muri isolano dal mondo di fuori una casta chiusa di piccoli borghesi degenerati e miserabili, sordi e ciechi e insensibili a tutto se non ai loro piccoli bisogni, alla loro omertà, ai loro intrighi talmente meschini e microscopici da riuscire incomprensibili.
Il Ministero è una specie di tempio, dove si adorano e perfezionano i vizi più abbietti, i tre più desolati peccati mortali: la pigrizia, l’avarizia e l’invidia. Sono i tre vizi di quella piccola borghesia incapace, che cerca, insieme, sicurezza e dominio, che è pigra perché non sa far nulla, non sa adoperare le mani, e neppure la mente, e qualunque lavoro le è difficile e perciò sgradevole, faticoso, impossibile; che è avara perché è povera e pretenziosa; che trova nell’invidia il solo compenso alla propria miseria: nell’invidia più totale, penetrata dappertutto, come un veleno che circoli nel sangue. Tutto questo è tenuto insieme da un potente spirito di casta, da un legame stretto come quello della camorra e della mafia.
Li vedeste, quegli esseri, seduti sulle loro sedie, davanti alle loro scrivanie, a far nulla, materialmente nulla, neanche a leggere il giornale, per ore e ore, con gli occhi imbambolati, in una specie di estasi d’ozio, o forse di mistica compenetrazione con la vuota idea dello Stato. Vedeste le loro facce, terribili, feroci nella loro piattezza. Sono un muro intonacato, e noi tutti ci battiamo contro e non riusciamo a buttarlo giù. L’epurazione non riesce a nulla, contro questa resistenza passiva.
C. Levi, L’orologio, Torino, Einaudi 1950 (qui ed. tascabile 1989, p. 92).