Al Ministero degli Esteri nessuno capiva il tedesco

Carlo Dossi, scrittore di punta del movimento letterario della Scapigliatura lombarda, fu al secolo Alberto Carlo Pisani Dossi, funzionario del Ministero degli affari esteri. Divenuto intimo di Francesco Crispi, che ne fece uno dei principali redattori del suo periodico «La Riforma», seguì il suo patrón anche in amministrazione, prima come capo della segreteria di Crispi ministro dell’Interno, poi come di suo capo di gabinetto agli Esteri. Nel 1887-1890 fu lui l’ideatore e il promotore instancabile della riforma crispina della diplomazia, culminata nella riforma dei programmi dei concorsi di accesso. Si trattò di una radicale svolta che mirava a creare un diplomatico moderno, buon conoscitore di scienze politiche, economiche e sociali, esperto dei paesi stranieri, anche tratto – quanto al reclutamento – da “riserve” ben più ampie di quanto non fosse (com’era stato sino ad allora) la ristretta élite della aristocrazia piemontese. Ne venne uno scontro durissimo con la “vecchia guardia” della Consulta (sede all’epoca del Ministero) capeggiata dall’ex segretario generale di Visconti Venosta Giacomo Malvano. Questi, destinato  da  Crispi all’ambasciata di Tokio, preferì “migrare” nel Consiglio di Stato. Salvo poi ritornare alla Consulta nel periodo della “disgrazia” crispina per cancellare il più possibile le tracce della riforma (e toccò allora a Dossi vedersi destinare a Bogotà). In questo brano delle Note azzurre (una miniera di brevi riflessioni e notazioni in punta di penna) Dossi si divertì a mettere alla berlina la vecchia classe dei funzionari suoi predecessori.

 

Il Ministero degli Esteri, sotto Visconti Venosta, era diventato un semplice ufficio di trasmissione. Vi si giocava da un capo all’altro dell’anno “al pizz tel doo, pizz tel mantegni” o “al Papagall colla coda d’argent”, facendo passare ad altri uffici, copiate, le note che vi arrivavano. La gran politica consisteva nel non lasciarsi bruciare in mano il pezzetto di carta del “Pizz tel doo”: in altre parole di scaricare addosso agli altri ogni eventuale responsabilità. Gli impiegati di detto Ministero erano in genere di una inarrivabile ignoranza. Un giorno per esempio la legazione d’Austria inviò una quitanza [sic] di spedalità che doveva essere rimessa al Ministero dell’Interno. Il signor Barilis […], deputato alla corrispondenza d’Austria-Ungheria benché non conoscesse il tedesco, manda la quitanza agli Interni, chiedendo loro il pagamento della spedalità già pagata. Ma il Ministero dell’Interno rimanda la quitanza, osservando che il Tal dei tali non si può trovare, per non esserci sufficientemente indicato il suo luogo di nascita. Nessuno capiva il tedesco: sbagliato un bottone, sbagliavansi tutti.

Un’altra volta si scambiarono note a proposito di un Cav. Pox. Indovinate chi era? Era il vaccino cow-pox, che per un errore di penna scritto cau-pox, diede origine a un cavaliere.

Confusissime erano poi nel Ministero degli Esteri le idee sulla proprietà. Sparivano giornali, libri, quinterni di carta, scatolette di penne, perfino i calamai. Spesso un furto generava l’altro. A. toglieva la penna a B., B. toglievala a C. ecc. Quanto alla celerità della macchina ministeriale, si pensi che le note urgentissime restavano settimane sui tavoli, e le urgenti mesi. Per una negligenza di un impiegato (Signor Barilis suddetto) un povero diavolo rimase due o tre mesi all’estero carcerato, aspettando la già decretata scarcerazione.

C. Dossi, Note azzurre, a cura di D. Isella, Milano, Adelphi, 1964, p. 161.