La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 18292/2020 ha ritenuto legittima la sanzione irrogata dal Garante a un Comune per aver pubblicato sull’albo pretorio on line per oltre un anno una determina dirigenziale contenete dati personali (non sensibili) di un dipendente.
Con l’ordinanza numero 18292 del 3 settembre 2020 la Corte di Cassazione ha proposto un nuovo bilanciamento tra i contrapposti principi di trasparenza e privacy, chiarendo che l’ostensione da parte di un comune dei dati personali (non sensibili) di un dipendente, mediante pubblicazione sull’albo pretorio di una determina dirigenziale per un periodo superiore a 15 giorni, viola il codice della privacy.
Nel caso di specie il Comune aveva mantenuto visibili per oltre un anno sul proprio albo pretorio on line una determinazione dirigenziale dalle quali risultavano il nome e il cognome del dipendente e l’esistenza di un contenzioso con il Comune (determina di nomina del difensore dell’amministrazione, con relativo impegno di spesa), ma anche lo stato di famiglia, nonché la circostanza che viveva da solo, che aveva avanzato una domanda di rateizzazione del debito e che tale istanza era stata rigettata.
Il Garante per la protezione dei dati personali ritenendo illegittima la diffusione dei dati personali di un dipendente comunale per un periodo superiore di quindici giorni stabiliti come periodo necessario di pubblicazione delle delibere comunali nell’albo pretorio ex art. 124 del Tuel, ha sanzionato l’ente locale. In particolare, secondo l’Autorità le predette informazioni, in quanto non afferenti all’assetto organizzativo degli uffici e pertanto non riconducibili alle strette esigenze di trasparenza amministrativa, avrebbero dovuto essere archiviate e celate immediatamente dopo la scadenza del termine minimo di quindici giorni.
La Corte di Cassazione con la richiamata ordinanza ha ritenuto che “la pubblicazione era lecita nei limiti del 124 TUEL, a cui è conforme l’art. 11 dello Statuto del Comune di Santa Ninfa, ma non poteva ritenersi consentita per un tempo eccedente i quindici giorni imposti da quest’ultima disposizione, in quanto riguardava notizie relative alla vita privata dell’impiegata (il suo stato di famiglia, il fatto di vivere sola, la proposizione di domanda di rateizzazione, il mancato accoglimento della stessa), le quali non afferivano all’assetto organizzativo degli uffici e pertanto non potevano ricondursi alle esigenze di trasparenza amministrativa”.
Secondo gli ermellini, dunque, il principio di trasparenza amministrativa è recessivo rispetto alla necessità di garantire la tutela dei dati personali, laddove questi ultimi non riguardino strettamente aspetti organizzativi dell’ente, non costituiscono indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse, ovvero non rappresentino i risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti.
Decorso il termine minimo di pubblicazione obbligatoria sull’albo pretorio delle determinazioni del Comune, gli atti amministrativi contenenti dati personali (praticamente tutti) devono essere cancellati e resi non più accessibili.
Il bilanciamento tra i contrapposti principi elaborati dalla Corte di Cassazione sembra determinare il definitivo superamento dell’auspicio formulato oltre un secolo fa da Filippo Turati secondo il quale “la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro”. Il divieto di mantenere la pubblicazione on line degli atti amministrativi oltre il termine di quindici giorni rischia di limitare significativamente il diritto dei privati di conoscere e quindi di controllare l’attività e l’organizzazione amministrativa. In tale prospettiva una lettura dei principi elaborati dalla Cassazione più aderente all’esigenza di controllo dell’amministrazione appare quella di oscurare i singoli dati sensibili mantenendo la possibilità per gli enti locali di pubblicare on line le proprie determinazioni anche ai sensi del D. Lgs. 33/2013.
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