1952, Luigi Einaudi ad Arturo Carlo Jemolo: come evitare i troppi burocrati

Sul quotidiano «Il Sole» la risposta di Luigi Einaudi a un articolo di Arturo Carlo Jemolo sulla burocrazia apparso nel numero del marzo 1952 della rivista di Piero Calamandrei «Il Ponte». Jemolo (Aspetti della burocrazia), pur denunciandone i difetti, aveva giustificato storicamente il ruolo della burocrazia nell’Italia unita, osservando che il modello opposto (meno Stato burocratico, più delega delle funzioni) avrebbe probabilmente impedito il sia pur relativo sviluppo del Mezzogiorno. Einaudi gli replicava contestandone il «fatalismo» e riflettendo sulle possibili alternative storiche.

 

Caro Jemolo, leggo con il consueto interesse il Suo articolo su «i troppi burocrati» (…). Poiché quell’analisi sarebbe certamente complicata e forse di esito dubbio, vorrei ricordare alcuni casi particolari e certi di diminuzione nel numero degli impiegati:

  • dopo il passaggio della Commerciale all’Iri, Mattioli riuscì a diminuire il numero degli impiegati di uno e forse due migliaia; in una proporzione certo rilevantissima;
  • durante il governo Menichella, il numero degli impiegati della Banca d’Italia diminuì certamente da 9 a 8 mila e ritengo che la tendenza sia ancora nel senso della diminuzione;
  • subito dopo la liberazione i dirigenti della Dalmine riuscirono anch’essi a diminuire in proporzioni rilevantissime il numero dei loro dipendenti. E naturalmente, in quest’ultimo caso, si verificò, cosa che non poteva accadere per le due banche, in un secondo tempo il risultato ovvio di una ripresa più che compensatrice della diminuzione precedente nel numero dei dipendenti occupati.

Non vorrei essere troppo reciso nella enunciazione della causa per la quale alla tendenza all’aumento si sostituì in questi casi la tendenza alla diminuzione. Ma per ora non ne vedo altra se non il tipo delle persone messe a capo delle tre imprese: persone dotate della capacità e della volontà di resistere a quello che comunemente si usa indicare come fato. Essendo persuasi che il «fato» era un’idea dannosa alle loro imprese ed alla nazione, costoro resistettero e lo vinsero (…).

Supponiamo, come è ovvio, almeno nelle dichiarazioni verbali universali, che lo scopo sia quello di diminuire al minimo possibile il numero dei disoccupati, intellettuali o manuali. Per raggiungere lo scopo due vie principalmente si offrono: a) ridurre al minimo di convenienza per l’impresa il numero degli impiegati ed operai occupati, sia che si tratti di pubbliche amministrazioni o di imprese private (…); b) diluire il lavoro che si ritiene distribuibile nel numero massimo di dipendenti. Probabilmente colui il quale nell’ipotesi a) era persuaso che per occupare molti bisogna licenziare tutti quelli che non si ritiene conveniente conservare, sarà persuaso che il mezzo considerato sotto questa lettera b) sia il più adatto per crescere al massimo la disoccupazione. È noto che molti, forse quasi tutti i viventi, sono persuasi che per eliminare la disoccupazione convenga distribuire il lavoro esistente fra il numero massimo di persone possibile. Sono due teorie, le quali si combattono nel mondo, senza che in nessun paese si riscontri applicata esclusivamente l’una o l’altra. (…).

Va da sé che la tendenza fatale verso l’aumento dei burocrati con tutta probabilità non sarà menomamente turbata dalla discussione che si svolgesse in seno agli studiosi tra le due politiche a e b. Il mondo seguiterà a camminare la sua via senza essere menomamente scosso dalle diatribe tra gli accademici. Ma ciò non significa che la discussione non presenti sempre qualche utilità, non fosse altro quella di dare alimento alle dispute fra gli storici, i quali scriveranno fra qualche secolo intorno al fatale andare della burocrazia nei secoli XIX e XX. Quegli storici non discuteranno più del contegno dei governi rispetto alla peste, agli untori, alle streghe, alle carestie ed agli accaparratori; bensì rispetto a miti non molto diversi, detti capitalismo o comunismo, corporativismo o partecipazionismo, sfruttamento o supersfruttamento. Diversi i miti, non diversa la materia del contendere. Vedremo perciò un rinnovato Manzoni, il quale essendo persuaso della verità della teoria a) lamenterà l’oscurità di tempi nei quali non si apprezzava la verità, pur non del tutta ignota, che per distruggere la disoccupazione bisogna prima crearla; e ci sarà un nuovo Niccolini, il quale acutamente indagando nei documenti dell’epoca concluderà alla necessità storica che gli uomini dei nostri secoli, essendo universalmente persuasi della verità del principio b) si comportassero così come di fatto fecero. E forse ci sarà un altro storico, il quale, constatando in certi paesi, nonostante la diluizione del lavoro tra il massimo numero di lavoratori, la persistenza pervicace della disoccupazione e della miseria, ricollegherà questi fatti con la universale credenza nella teoria b). Ma si guarderà bene dal pronunciare un qualsiasi giudizio morale sul fatto, contentandosi di constatare che tale essendo la premessa universalmente accettata, tale doveva essere l’inevitabile, non dicasi neppure effetto, ma fatale sequenza dei fatti. Che è anche un modo di scrivere la storia non più facile o non più difficile di tante altre maniere (…).

La lettera di Einaudi, conservata presso l’Archivio centrale dello Stato, Carte Arturo Carlo Jemolo, fu ripubblicata sul «Sole 24 ore» del 22 febbraio 1987 col titolo Burocrazia per fatalismo. Una lettera inedita a Jemolo contesta la crescita del settore pubblico.